GLI ESERCIZI SPIRITUALI DI SANT’IGNAZIO: UNA PROPOSTA ANCORA VALIDA?

G. CUCCI – M. MARELLI, in La Civiltà Cattolica 2019 III 223-237

Nel sentire comune, la vita spirituale e le ore trascorse in ritiro, come nel caso degli Esercizi spirituali, vengono sostanzialmente considerate uno spreco di tempo e di energie che potrebbero essere ben altrimenti impiegate in attività più utili e redditizie. Altri invece cercano di farvi ricorso per «stare bene», per ottenere quella serenità invano promessa da farmaci o da una vita spensierata. Salvo poi ben presto abbandonarla quando emergono risultati di tutt’altro genere. Ma chi si è cimentato in questa esperienza seguendo le indicazioni proposte da sant’Ignazio nota esattamente il contrario.

Anche in termini operativi.

Prendere le distanze dalla propria situazione, presupposto indispensabile degli Esercizi, fa sempre bene. Thomas Merton osservava che la vita interiore, considerata sia come ascesi sia come pratica spirituale, è alla base dell’impegno e della maggior parte delle trasformazioni sociali avvenute nella storia. L’esperienza insegna che, quando si impara a «staccare», a operare una separazione da ciò che ci tiene occupati, si diventa più efficaci, ma soprattutto ci si guadagna in salute anche sotto il profilo intellettuale.

Un esperimento compiuto da David Strayer, dell’Università dello Utah, su un gruppo di uomini e donne intorno ai 30 anni di

età, ha mostrato la grande differenza di rendimento e capacità di fronte a compiti richiesti (fino al 50% in media) quando le persone usufruiscono di un periodo di totale stacco – da quattro a sei giorni – da qualunque attività (lavorativa o ludica) che abbia a che fare con il lavoro, ma anche da ogni tipo di strumentazione tecnologica (dal tablet al telefonino). La differenza in termini di creatività era ancora più rilevante se il periodo di stacco era stato trascorso a contatto con la natura (1).

Lungi dall’essere una manifestazione di alienazione e di fuga dalla realtà (come ritenevano i cosiddetti «maestri del sospetto»: Marx, Nietzsche e Freud), la dimensione spirituale, che ha come referente privilegiato il silenzio e il contatto con la natura e con la profondità di se stessi (condizioni di apertura per l’incontro con l’Altro a cominciare dal profondo di sé), risulta di indubbio aiuto per il più generale equilibrio psicologico della persona. Per questo sant’Ignazio invita l’esercitante a distanziarsi anche fisicamente dal luogo ordinario di vita per poter compiere al meglio questa esperienza: «Ordinariamente, chi fa questi esercizi ricava tanto più frutto quanto più si distacca da amici, conoscenti e da ogni preoccupazione materiale. Per esempio, può cambiare la casa in cui dimorae trasferirsi in un’altra casa o in un’altra camera, per abitarvi con il maggior raccoglimento possibile; così gli sarà facile partecipare ogni giorno alla messa e ai vespri, senza timore di essere disturbato dai conoscenti.

Da questo isolamento derivano, fra molti altri, tre vantaggi principali.

Primo: chi si distacca da molti amici e conoscenti, e anche da molte occupazioni non bene ordinate, per servire e lodare Dionostro Signore, acquista un grande merito davanti alla divina Maestà.

Secondo: chi sta così appartato, non avendo la mente distratta da molte cose, ma ponendo tutta l’attenzione in una sola, cioè nel servire il Creatore e nel giovare alla propria anima, può impegnare più liberamente le sue facoltà naturali per cercare con diligenza quello chetanto desidera.

Terzo: quanto più un’anima si trova sola e appartata, tanto più diventa capace di avvicinarsi e di unirsi al suo Creatore e

Signore; e quanto più gli si unisce, tanto più si dispone a ricevere grazie e doni dalla somma e divina bontà» (Esercizi spirituali [ES], n. 20). «Staccare» da ambienti e attività ordinarie consente di entrare nel proprio mondo interiore e di vedere meglio quello esteriore; è come quando si ammira una città dall’alto: la si vede nel suo insieme,nella sua interezza, cosa che non è possibile quando vi si è immersi.

Negli Esercizi emerge in maniera più chiara ed evidente quello che si vive nella vita ordinaria ma in forma occultata: le mille attività e impegni spesso sono una forma per coprire vuoti e difficoltà del vivere, senza riuscirci, vivendo così in maniera sempre più scialba.

Prendere le distanze dall’attività ordinaria, rileggendola alla luce della parola di Dio, aiuta poi a ritornarvi con più efficacia, sapendo quello che si sta cercando e soprattutto come riconoscerlo qualora lo si trovi. Quando si ha il coraggio – perché la vita spirituale non è affatto una fuga, ma una battaglia con se stessi – di affrontare e rileggere quanto emerge dalla propria interiorità, si notano delle ricadute fondamentali nella propria vita. Per questo l’esperienza spirituale è alla base dei grandi cambiamenti, individuali come storici.

L’importanza della cura di sé

La vita spirituale non è una bolla evanescente di suggestioni; al contrario, ha le sue leggi, le sue regole, che si ritrovano alla base delle grandi esperienze dei mistici e dei maestri di vita spirituale. I loro scritti rivelano una sapienza, una visione della vita, dell’uomoe di Dio (2). Soprattutto, aiutano a riconoscerne la voce, per rendersi sempre più disponibili al suo progetto, teso a una vita piena.

Il primo insegnamento degli Esercizi è questo: imparare a educarsi a questo stile di vita, guardandosi dal pericolo del fatalismo,del nichilismo, del qualunquismo. Essi hanno in comune l’assenza di un impegno nell’aspetto più decisivo, la cura di sé, della propria dimensione interiore, che viene messa da parte con facilità, con la scusa che tanto si tratterebbe di una fatica inutile e non porterebbe ad alcun cambiamento. L’accidia – il vizio del disimpegno – è oggi così popolare e diffusa, perché riflette l’odierna mancanza di fiducia in una dimensione più grande dei nostri progetti e realizzazioni. Si vive ancorati all’oggi, all’istante; e questo, se può dare l’illusione di onnipotenza, di avere tutto nelle nostre mani, presenta tuttavia un prezzo altissimo da pagare.

Illudersi di programmare la propria vita è come stringere tra le mani un uccellino per averlo sempre con sé: in realtà si finisce per soffocarlo, uccidendolo. Allo stesso modo, la vita si spegne quando viene appiattita al nostro livello di considerazioni e progetti, diventand ben presto vuota e triste. La mancanza di speranza è un segnale di allarme, ricorda che si è smarrita la dimensione trascendente dell’esistenza (3). In tal caso, di fronte alle inevitabili difficoltà e ai contrattempi che la caratterizzano, sorge l’interrogativo di fondo se valga la pena impegnarsi e lottare per qualcosa che non paga immediatamente. Questa è appunto la voce dell’accidia, una voce estremamente persuasiva e inquietante: perché rischiare per qualcosa che forse non cambierà nulla della propria vita? L’accidia esaspera le difficoltà a impegnarsi in scelte di vita definitive o a lungo termine, a giocare la propria libertà per qualcosa che valga, soprattutto ad affezionarsi a ciò che si fa: «Nel nostro mondo l’accidia non prende più il volto della pigrizia, ma quello del lasciar fare, dell’abbozzare. Tanto, si dice: “Sono tutti uguali e migliorare è impossibile”. Questo modo di ragionare evita costantemente di mettere in questione la propria condotta […]. L’accidioso non sa faticare.

Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia!» (4).

Gli Esercizi spirituali non sono dunque un mero optional, uno sfizio di chi non sa come trascorrere la giornata. Sono un aiuto prezioso per imparare a vivere bene. Per questo sono anche faticosi, perché mirano a riformare la propria persona. La posta in gioco è la salvezza, che si traduce già ora in pienezza di vita.

Una proposta integrata

La richiesta, posta all’inizio degli Esercizi spirituali, di «mettere ordine» evidenzia un altro grave rischio della vita spirituale: la tendenza a costruirsi una religione a propria immagine e somiglianza, evitando ciò che è scomodo o dà fastidio, una specie di bricolage o supermercato dello spirito, dove si può selezionare ciò che piace, lasciando cadere il resto.

Il termine «spirito», legato agli Esercizi, rimanda a un essere vivente, non a un menù à la carte, o a una lista di prodotti da scegliere secondo il gusto del momento. L’esperienza di fede, proprio in quanto paragonabile a un organismo vivente, presenta una sua essenziale coerenza e una sua unità che non sono contrattabili a piacere, come ricorda papa Francesco nell’enciclica Lumen fidei: «Dato che la fede è una sola, deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità. Proprio perché tutti gli articoli di fede sono collegati in unità, negare uno di essi, anche di quelli che sembrerebbero meno importanti, equivale a danneggiare il tutto. Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede (cfr 1 Tm 6,20), perché si insista opportunamente su tutti gli aspetti della confessione di fede. Infatti, in quanto l’unità della fede è l’unità della Chiesa, togliere qualcosa alla fede è togliere qualcosa alla verità della comunione. I Padri hanno descritto la fede come un corpo, il corpo della verità, con diverse membra, in analogia con il corpo di Cristo e con il suo prolungamento nella Chiesa. L’integrità della fede è stata legata anche all’immagine della Chiesa vergine, alla sua fedeltà nell’amore sponsale per Cristo: danneggiare la fede significa danneggiare la comunione con il Signore. L’unità della fede è dunque quella di un organismo vivente, come ha ben rilevato il beato John Henry Newman quando enumerava, tra le note caratteristiche per distinguere la continuità della dottrina nel tempo, il suo potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra, tutto purificando e portando alla sua migliore espressione» (5).

Il criterio di riferimento per la dimensione spirituale non è quello della moda del momento, ma piuttosto quello della salute e della cura necessaria per mantenerla. In sede terapeutica, un intervento chirurgico raramente può essere considerato piacevole, ma talvolta è indispensabile per la vita. Un essere vivente è caratterizzato da una sua strutturale unità; non si può sezionarlo in parti, scegliendo quella più gradita per appiccicarla altrove. Così si crea un mostro o, se applicato alla vita, il caos, anche perché le molteplici proposte assunte hanno aspetti contraddittori e richiedono, volenti o nolenti, una scelta che non può essere delegata all’emozione o alla volubilità dell’umore. «Anche all’interno di quell’85% che nei sondaggi dichiara di credere è sempre più diffusa la fede “a modo proprio” (no pratica religiosa, no confessione, tolleranza riguardo al sesso extraconiugale e al rampantismo), declinata spesso nella morale doppia e tripla di alcuni politici (cattolici e razzisti al contempo, parimenti fedeli e bon vivant), nell’esponenziale diserzione dei culti religiosi, nella profonda crisi delle vocazioni […]. È andato perso il “timore di Dio” (in assenza del quale tutto diventa lecito, possibile, alla portata); anche sulle questioni di fede (dopo quelle della politica) siamoregrediti in massa a uno stato immaturo di puro es (puro istinto), auto-indulgente, narcisista, refrattario alle regole» (6).

Esercizi e gratuità

Dietro le resistenze sopra ricordate si può anche annidare lo smarrimento di alcuni aspetti fondamentali della vita: le dimensioni della gratuità e della generosità. Esse sono anche le chiavi di accesso all’esperienza degli Esercizi, come ricorda lo stesso Ignazio (cfr ES 5). La gratuità ha un valore contestativo della mentalità commerciale, utilitaristica di considerare la religione. Come osserva p. Ugo Sartorio: «Non è importante che [la religione] sia vera, ma piuttosto utile, cioè in grado di fornire al soggetto vitamine esistenziali per sopravvivere dentro il caos del mondo moderno. La salvezza che preoccupa […] è quella del qui e ora, che riguarda la propria integrità psico-fisica e un buon livello di soddisfazione personale. Molti dalla religione, o meglio dal mix religioso improvvisato a presidio del proprio io – spesso saccheggiando il patrimonio simbolico di più tradizioni religiose –, si aspettano questo e non altro. Una salvezza nell’aldiquà più che nell’aldilà, per cui, quando si investe in un’opzione religiosa, si passa subito all’incasso. Se questo è scarso o nullo, si cambia opzione» (7). Da qui l’impoverimento interiore, l’incapacità di vivere le relazioni, anche nel contesto dell’esperienza di fede. Per questo la tradizione cristiana ha sempre insistito sull’importanza dell’accompagnamento come momento indispensabile di lettura della possibile verità del proprio percorso.

La spiritualità cristiana non può essere confusa con altre proposte, come il new age, tese semplicemente allo «stare bene» e al piacere. Di fatto finisce per accadere l’esatto contrario: più si cerca il benessere e la soddisfazione, meno li si trova. È la deriva dell’accidia, notata sopra. Il senso di pienezza e di pace interiore giungono invece gratuitamente, in maniera inaspettata, come nell’esperienza di Dio che ha compiuto Ignazio, e più in generale nei racconti evangelici di vocazione (cfr Lc 5,1-11.27-28; Mc 3,13-19): Dio si fa trovare quando non lo si cerca o si è presi da altro.

Solo nella gratuità, sperimentata e offerta, si può riconoscere che la propria vita è degna di valore, indipendentemente dai limiti, difetti e incapacità che vi si possono trovare. Per questo il Signore invita i suoi a compiere il bene non per essere visti e ammirati, perché l’unica vera ricompensa è quella del Padre (cfr Mt 6,1-6.16-17), ed essa può giungere soltanto nel segreto e nel momento in cui non la si cerca; è la beatitudine del gratuito (cfr Mt 10,8).

Il significato dei termini

L’espressione «Esercizi spirituali» non è stata coniata da Ignazio. Egli riprende piuttosto una tradizione molto antica, propria della spiritualità cristiana dei primi secoli, che a sua volta attinge alla filosofia greca. Secondo la tradizione stoica, gli Esercizi spirituali, analogamente al dialogo platonico, erano scanditi dal paziente ascolto e confronto con una guida capace di portare a parola i sentimenti vissuti, la posta in gioco e i possibili rischi, aiutando il singolo a riconoscere e attuare ciò che da tale istruzione può conseguire: «Questa è la lezione della filosofia antica: un invito per ogni uomo a trasformare se stesso.

La filosofia è conversione, trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere, ricerca della saggezza. Non sembra cosa facile» (8). Su questo punto esiste una forte continuità fra tradizione classica e cristianesimo: essi sono accomunati dal desiderio di conoscere se stessi e operare cambiamenti importanti nella propria vita, e fanno riferimento a una conoscenza sapienziale, capace di unire dimensione intellettuale e dimensione affettiva. Gli Esercizi spirituali vengono ripresi da Ignazio in questa chiave pratica, come egli ricorda nel testo: «Esercizi spirituali per vincere se stesso e per mettere ordine nella propria vita senza prendere decisioni in base ad alcuna affezione che sia disordinata» (ES 22). Si tratta di imparare a compiere decisioni «ordinate» nel senso visto sopra, docili alla volontà di Dio. In questo modo il ritiro, tempo forte dello spirito, fa sentire le sue conseguenze nella vita ordinaria, perché è «nettamente scandito nella durata del quotidiano, determina un inizio e una fine»

I numerosi testi riportati da Pierre Courcelle, nella sua meticolosa e particolareggiata indagine su questo tema, confermano la profonda integrazione tra riflessione filosofica e riflessione biblica, un dialogo fatto anzitutto di rispetto e conoscenza accurata degli autori che avrebbe molto da dire agli odierni dibattiti sulle possibili relazioni tra cultura «laica» e cultura «religiosa», riducendo spesso il discorso a vuote etichette. Ripercorrere la storia del pensiero, studiandone le fonti, mostra al contrario punti in comune difficilmente contestabili, figure di pensatori in cui il desiderio di conoscere risulta più importante della paura della diversità. Il punto di intersezione irrinunciabile, base di ogni dialogo, anche dell’incontro con Dio, rimane la conoscenza di sé: «Chiunque desideri cercare Dio e trovarlo, dovrà cercarlo in se stesso, nell’intima profondità della propria anima in cui si trova l’immagine di Dio, e scavare il campo della sua essenza creata»(10). Anche un altro elemento fondamentale della spiritualità ignaziana, ƒl’esame di coscienza, ha origini antichissime. San Cesario di Arles, nelle sue prediche, invitava gli uditori a questa pratica per purificare le abitudini cattive, riconosciute nelle azioni quotidiane, trasformando se stessi e diventando sempre più conformi all’originaria immagine di Dio presente in ogni uomo. Il confronto con la propria natura diventa così, letteralmente, scavo di sé, come nel lavoro del contadino, una fatica indispensabile perché la propria vita possa portare frutto: «Dissodare significa in questo caso sondare la propria coscienza, osservare con cura i propri pensieri, il propri linguaggio, i propri atti, sottrarsi a tutte le opere della carne, eliminarle con l’ardore della confessione, seminare il frutto dello spirito, attingendo alla fonte delle acque vive con il pentimento e lapreghiera» (11).

Ignazio riprende questa pratica salutare, oggi purtroppo quasi del tutto disattesa, per invitare l’esercitante a rileggere la propria giornata alla luce della fedeltà e bontà di Dio e notare eventuali distorsioni per contrastarle, conducendo, con l’aiuto della grazia, una vita sempre più libera e ordinata(12) .Ma quella di Ignazio è anche una proposta radicata nello spirito della modernità. Egli infatti ricorre frequentemente al sospetto, che invita a praticare nei confronti dei pensieri e ragionamenti che si presentano al proprio cuore, specie se connotati di una colorazione affettiva che confonde e distoglie da una buona impresa iniziata, come Ignazio ebbe modo di constatare personalmente (13).

Il fondatore della Compagnia di Gesù sperimenta presto, iniziando una nuova vita, la verità del cap. 3 della Genesi, cioè che nella vita spirituale anche la tentazione parla spesso di Dio e sembra presentare consigli più efficaci e risolutivi. Da qui la necessità della consapevolezza su ciò che si muove nel cuore, l’importanza di dare un nome a ciò che si sente e a mostrane il percorso, la sua origine e soprattutto il suo punto di arrivo (cfr ES 333). È quello che Ignazio chiama, con un termine divenuto celebre, «il discernimento degli spiriti». Per questo è indispensabile la conoscenza di sé e, soprattutto, dei propri punti deboli, degli affetti disordinati, delle paure: essi sono autentiche password del nostro cuore, che il tentatore conosce bene e che rischiano di spalancare la porta al nemico, che «entra con la nostra ed esce con la sua» (ES 332).

La proposta ignaziana presenta così due caratteristiche fondamentali:

1) mira all’integrazione di sensibilità/ affettività; e

2) unisce la dimensione interiore e quella esteriore. Ciò è fondamentale ancheper la perseveranza nelle scelte compiute, nella propria vocazione come nella più generale stabilità del proprio modo di procedere.

Due elementi anche in questo caso risultano decisivi: una buona conoscenza di se stessi, delle proprie inclinazioni, desideri e limiti, e una relazione affettiva con il Signore Gesù. Il percorso degli Esercizi, scandito dalle regole, dalle composizioni di luogo e dalle contemplazioni, vuole portare l’esercitante a raggiungere queste due grandi grazie.

Un cammino di libertà

Lo scopo di questa proposta è di purificare la memoria, proteggendola da ciò che avvelena l’animo, educando il sentire per

diventare sempre più liberi di decidersi per il bene. Il vero cambiamento secondo gli Esercizi riguarda il nostro modo di sentire e valutare, è la «conversione», così come la intende Bernard Lonergan: non si tratta di cambiare il problema, ma di cambiare l’orizzonte, il modo di considerarlo (14). Gli Esercizi, per riprendere l’esempio considerato sopra, possono essere paragonati a un’operazione chirurgica: per aiutare le persone a educare le loro emozioni è soprattutto necessario contrastare le derive distruttive, come, ad esempio, il rancore e il risentimento. Le cattive abitudini sono ardue da abbandonare, anche perché hanno facile preda su di noi.

È un fatto strano, ma di comune riscontro: al risentimento, all’odio ci si può affezionare, arricchendoli di sempre nuovi dettagli, grazie all’immaginazione. In questo modo ci si tormenta con le proprie mani, avvelenandosi sempre più (15).

Anche le cose più buone e condivisibili, come la dedizione agli altri e la giustizia sociale, possono diventare una tentazione. Il card. Carlo Maria Martini ricordava come avesse più volte incontrato persone oneste, generose, animate da rette intenzioni, ma così divorate dalla rabbia da non comprendere che il loro impegno per la giustizia, cui si dedicavano con ardore e dedizione, spesso non corrispondeva affatto a ciò che la gente chiedeva loro. E questo perché in coloro che essi aiutavano rivedevano, come in una sorta di flashback, la propria situazione, non si rendevano conto che stavano portando avanti le proprie battaglie, cercando di riscattare le umiliazioni subite (16).

Una spiritualità incarnata

Un’altra parola fondamentale degli Esercizi è la «corporeità». L’incontro con il Signore passa per i cinque sensi, le tre potenze dell’anima (memoria, intelletto, volontà, cfr ES 45), l’immaginazione e gli affetti. Alla base di questa esperienza c’è un’antropologia integrale, perché il luogo di incontro con Dio è anche il luogo dellanostra conoscenza più vera e profonda, «più intimo a me di me stesso », come direbbe Agostino (Confessioni, III, 6, 11). Gli Esercizi costituiscono così anche un’educazione ai cinque sensi. Si pensi alla contemplazione dell’incarnazione, che è un esercizio dei sensi, anzitutto della vista: «Primo, vedo gli abitanti della terra, così diversi sia nelle vesti sia negli atteggiamenti: alcuni bianchi e altri neri, alcuni in pace e altri in guerra, alcuni che piangono e altri che ridono, alcuni sani e altri malati, alcuni che nascono e altri che muoiono, e così via. Secondo, vedo e considero le tre Persone divine nella loro sede regale o sul trono della loro divina Maestà: esse osservano la superficie ricurva della terra e gli uomini di tutte le razze, che vivono come ciechi e quando muoiono vanno all’inferno. Terzo, vedo nostra Signora e l’angelo che la saluta, e rifletto per ricavare frutto da questa considerazione» (ES 106;).

Troviamo qui tre livelli differenti del vedere, che mostrano tre diverse narrazioni verso un cammino di libertà e verità a cui Ignazio vuole portare l’esercitante: «Ignazio “guarda” il mondo, e gli uomini, con attenzione, per lo più in silenzio, senza giudicare, ma sapendo di andare al di là di ciò che si dice e di ciò che appare. Mirar: è la parola spagnola che egli predilige. Guardare il presente e, nel presente, percepire il possibile avvenire: guardare, ma con la sfumatura che offre l’etimologia della parola e che carica lo sguardo di una “ammirazione” contenuta. Guardare, per lui, è percepire ciò che è presente, ma che implica anche riflettere, pesare, lasciarsi interrogare; più ancora, pregare. La parola ritorna più spesso quando si tratta di prepararsi a una decisione, di pesare il pro e il contro, di discernere i tempi e i “passaggi” che si presentano alla nostra evocazione. Guardare il reale, senza paura, ma anche senza illusione: guardarlo come lo guarda Dio, ma nello stesso tempo, anche come gli uomini lo fanno» (17).

E così è anche per gli altri sensi: «Secondo punto: ascolto quello che dicono gli uomini sulla terra, cioè come parlano tra loro, giurano, bestemmiano e via dicendo; così pure ascolto quello che dicono le Persone divine, cioè: “Facciamo la redenzione del genere umano”; ascolto poi quello che dicono l’angelo e nostra Signora; infine rifletto per ricavare frutto dalle loro parole. Terzo punto: osservo quello che fanno gli uomini sulla terra; per esempio, feriscono, uccidono, vanno all’inferno, e via dicendo; così pure guardo quello che fanno le Persone divine, cioè compiono l’opera della santissima Incarnazione; e ancora guardo quello che fanno l’angelo e nostra Signora, cioè l’angelo compie la sua missione di messaggero e nostra Signora con un atto di umiltà ringrazia la divina Maestà; infine rifletto per ricavare qualche frutto da ciascuna di queste considerazioni.

Colloquio. Alla fine farò un colloquio pensando a quello che devo dire alle tre Persone divine o al Verbo incarnato o alla Madre e Signora nostra: secondo quello che sentirò in me, chiederò l’aiuto per seguire e imitare meglio nostro Signore, come se si fosse ora incarnato. Dirò un Padre nostro» (ES 107-109; corsivi nostri).

Il tempo, luogo dell’incontro con l’Eterno

Un’altra parola fondamentale nella relazione con Dio è il «tempo» (18). L’uomo è un essere che vive nel tempo; Dio stesso ha

voluto farsi incontrare nella temporalità, entrando nella storia, con la rivelazione e nella maniera più piena mediante l’incarnazione. Il tempo è una maniera, oltre che di mettere ordine nella vita, di fare esperienza di Dio. Gli Esercizi spirituali riprendono il grande insegnamento che giunge dall’istituzione biblica del sabato. Ci «stacchiamo» dalla vita ordinaria per rileggere quanto vissuto e notare i segni del passaggio dell’Eterno nella nostra vita, contrastando la tendenza al disordine costitutivo, l’entropia anche spirituale che ci caratterizza, propria delle abitudini e degli automatismi, per fare esperienza del Sacro, del «separato», all’origine di ogni realtà.

La Bibbia, fin dalla sua prima pagina, trasmette così un insegnamento fondamentale all’uomo che cerca il significato delle cose: «La filosofia potrebbe apprendere molte cose dalla Bibbia: per il filosofo l’idea del bene è la più alta; nella Bibbia invece essa occupa il penultimo posto; il bene non può esistere senza il sacro. Il bene è la base, il sacro è la sommità. Le cose che erano state create in sei giorni, Egli le considera buone, ma il settimo giorno Egli lo rese santo […]. Di solito crediamo che la terra sia nostra madre, che il tempo sia denaro e che il profitto sia il nostro compagno.

Ignazio invita l’esercitante a suddividere la giornata in 4-5 momenti di preghiera di un’ora ciascuno, cercando di restare fedele all’orario stabilito (cfr ES 12).


Il settimo (18) giorno ci fa ricordare che Dio è nostro padre, che il tempo è la vita e che lo spirito è il nostro compagno. Nel linguaggio della Bibbia il mondo è stato creato nei sei giorni della creazione, ma la sua sopravvivenza dipende dalla santità del settimo giorno […]. Noi sappiamo che non si può dominare una passione con un decreto. La decima ingiunzione sarebbe perciò praticamente vana se non vi fosse il “comandamento” che riguarda il Sabato, al quale è dedicato un terzo del testo del Decalogo, e che costituisce il riassunto di tutti gli altri comandamenti. Dobbiamo cercare un rapporto tra questi due “comandamenti”. Non desiderare nulla di ciò che appartiene al tuo vicino; Io ti ho dato qualcosa che appartiene a Me. Che cos’è questo qualcosa? Un giorno» (19).

Il sabato è l’esperienza anticipata del riposo di Dio (cfr Gen 2,4a). L’esperienza della santità educa il desiderio e dilata lo spazio della libertà. In questo modo il cuore diventa sempre meno occupato dalle cose dello spazio, perché conquistato dalle cose del tempo; esso diviene desiderio dell’Eterno, dove l’uomo può accedere alla dimensione più piena dell’essere. È per questa essenziale congiunzione di tempo ed eternità che la Genesi, parlando del settimo giorno, omette ciò che accomuna i precedenti giorni della creazione: «e fu sera e fu mattina». Il sabato non ha sera né mattina, non ha fine, perché è un anticipo di eternità donato da Dio all’uomo: «Due sono gli aspetti del Sabato, come due sono gli aspetti del mondo. Il Sabato ha significato per l’uomo e ha significato per Dio. Esso è in rapporto con entrambi, in quanto è un segno del patto stretto fra loro […]. Il Sabato è la presenza di Dio nel mondo, aperta all’anima dell’uomo […]. La vita eterna non si svolge lontana da noi, ma “è piantata in noi stessi” e si sviluppa oltre noi. Il mondo futuro è perciò non soltanto una condizione postuma, che albeggia nell’anima all’indomani del suo distacco dal corpo: l’essenza del mondo futuro è nel Sabato eterno, e il settimo giorno fornisce nel tempo un assaggio dell’eternità» (20).

L’ingresso in questo giorno va tuttavia preparato. Esso dà gusto al tempo vissuto, riscattandolo dalla deriva del «tempo perduto», ma è anche la preparazione a ciò che ci attende. Come osserva sempre Heschel: «Secondo il Talmud, il Sabato è me’en ‘olam ha-ba, che significa: piuttosto simile all’eternità o al mondo futuro. Questa idea secondo cui in una settima parte della nostra vita noi possiamo fare esperienza del paradiso costituisce uno scandalo agli occhi dei pagani e una rivelazione per gli ebrei […]. Se non avremo appreso a gustare il sapore del Sabato mentre ci troviamo ancora in questo mondo, se non saremo stati iniziati all’apprezzamento della vita eterna, non potremo godere il sapore dell’eternità nel mondo futuro.

È triste la sorte di chi vi arriva inesperto e, una volta condotto in cielo, non ha la capacità di percepire la bellezza del Sabato» (21). Gli Esercizi spirituali vogliono essere un ingresso nel sabato, inteso come esperienza dell’Eterno nel tempo, un incontro che trasforma la vita, e offrono un anticipo di risurrezione. Qui l’anima trova quello che cercava inutilmente altrove, perché fa esperienza del riposo di Dio: «Quando leggo la divina Scrittura, Dio torna a passeggiare nel Paradiso terrestre» (22).


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NOTE

1. Cfr R. Atchley – D. Strayer – P. Atchley, «Creativity in the Wild: Improving Creative Reasoning through Immersion in Natural Settings», in PLoS

2. Cfr G. Cucci, «Mistica e riflessione psicologica», in Id., Esperienza religiosa e psicologia, Leumann (To), Elledici, 20172, 237-292.

3. La speranza è strettamente legata alla dimensione della fede, nel senso della Lettera agli Ebrei: «La fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono» (Eb 11,1).

4. S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Milano, Feltrinelli, 1997, 12 s. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali, Roma, AdP, 20122, 313-358.

5. Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei, 29 giugno 2013, n. 48; cfr J. H.

Newman, An Essay on the Development of Christian Doctrine, London, Longmans,

6. M. Bonanno, http://www.sololibri.net

7. F. Anfossi - A. M. Valli, Il vangelo secondo gli italiani, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2013, 94; cfr G. Salvini, «La religiosità degli italiani», in Civ. Catt. 2013 III 56-65.

8. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 1988, 166.

9. M. Giuliani, «La voie d’Ignace de Loyola», in Études Hors-Série 2013, 45.

10. L. Bouyer - F. Vandenbroucke - L. Cognet, Histoire de la spiritualité chrétienne, Paris, Aubier, 1966, t. III, 2; 46.

11. P. Courcelle, Conosci te stesso. Da Socrate a san Bernardo, Milano, Vita e Pensiero, 2010, 204. L’Autore cita il De contemplatione et eius speciebus, attribuito a san Vittore di Parigi.

12. «Modo di fare l’esame generale: comprende cinque punti. Primo punto: ringraziare Dio nostro Signore per i benefici ricevuti. Secondo punto: chiedere la grazia di conoscere i peccati e di eliminarli. Terzo punto: chiedere conto alla propria

coscienza ora per ora, o periodo per periodo, da quando ci si è alzati fino al momento di questo esame, prima sui pensieri, poi sulle parole e infine sulle azioni, seguendo lo stesso procedimento che è stato indicato nell’esame particolare [25]. Quarto punto: chiedere perdono a Dio nostro Signore per le mancanze. Quinto punto: proporre di emendarsi con la sua grazia. Infine dire un Padre nostro» (ES 43).

13. «Pareva che qualcuno gli dicesse dentro l’anima: “Come potrai tu vivere fino a settant’anni sopportando questo genere di vita?”. Ma a tale insinuazione ribatté, pure interiormente, con grande risolutezza (avvertendo bene che proveniva dal nemico): “Miserabile! Hai forse tu potere di garantirmi un’ora sola di vita?”. Così vinse quella tentazione e ritornò tranquillo» (Ignazio di Loyola, s., Autobiografia, n. 20).

14. Cfr B. Lonergan, Metodo in Teologia, Roma, Città Nuova, 2001, 268-270.

15. Cfr G. Cucci, P come perdono, Assisi (Pg), Cittadella, 2011, 53-60.

16. Cfr C. M. Martini, Due pellegrini per la giustizia, Casale Monferrato (Al), Piemme, 107.

17. M. Giuliani, «La voie d’Ignace de Loyola», cit., 46.

19. A. Heschel, Il sabato, Milano, Garzanti, 1999, 95 s; 111.

20. Ivi, 69; 77; 94 s.

21. Ivi, 94.

22. Ambrogio, s., Epistola 49, 3.