Quando si diventa parroci…cose che capitano

di Enrico Parolari, presbitero e psicologo della Diocesi di Milano

Tredimensioni 5(2008) 197-205

Questa scheda offre alcuni spunti per avviare una condivisione di vita su situazioni connesse al «diventare parroco». Sono state scelte quelle situazioni -«cose che capitano!»- che implicano una circolarità tra le dinamiche della relazione pastorale e quelle profonde dell’identità

individuale, nell’intreccio tra dimensione psicologica, pastorale e spirituale.

Diventare parroco è un passaggio già significativo in sé, dato che di solito avviene in un momento critico e ricco di risorse come quello dell’età di mezzo. Questa stagione di vita, al culmine e nella pienezza delle responsabilità e delle capacità personali e ministeriali, è segnata da una certa disillusione e da un maggior realismo che provengono dalle esperienze finora fatte; non sempre il carico di esperienza diventa sapienza né si traduce in un’assimilazione più essenziale e vivace del Vangelo; potrebbe aprire una fase più arida, tentata dalla stagnazione («tirare i remi in barca») o dal risentimento («mi faccio il mio ambiente»).


Distacco e ri-attacco affettivo

Il passaggio da una parrocchia all’altra -a volte atteso, a volte un po’ subito- segna e smuove, nel medio periodo, l’equilibrio affettivo-relazionale finora acquisito. Smuove in modo più o meno forte gli assetti interiori, riattivando degli schemi relazionali e affettivi profondi che in qualche modo erano rimasti tra parentesi e si erano provvisoriamente assestati nel cammino di vita precedente.

Nella fase del distacco, nei mesi precedenti e successivi ma anche ad una certa distanza di tempo, emergono reazioni affettive di vario tipo: insicurezza, ansietà, umiliazione, mancanza di gratitudine, risentimento…, tensioni che a volte si esprimono anche con qualche sintomo somatico che ritorna. Anche quando il cambiamento era sperato, si tratta pur sempre di una situazione di lutto, che in

qualche modo mette in evidenza la forza di qualche legame affettivo o ne invoca la ricerca. Non si può disconoscere che mentre per alcuni preti il cambiamento è stato un momento di rilancio in tanti sensi, per altri ha costituito un momento di vera e propria crisi affettiva e vocazionale.

Il passaggio è un momento delicato e particolarmente prezioso per conoscersi di più nelle proprie risorse e fragilità affettive. Proprio in un momento che apre delle fessure profonde nel nostro mondo emotivo sentiamo il bisogno di persone sicure e amiche. Il compito da affrontare è quello di un’accoglienza più realistica di ciò che si è, per un’integrazione più profonda del mondo affettivo, per un celibato più povero e più provato, e quindi paterno.

L’ombra del predecessore

L’avvicendamento, in certi casi, è atteso serenamente o addirittura sospirato dai parrocchiani, in altri, almeno in un primo tempo, può essere in qualche modo temuto o rifiutato. In ogni caso il rapporto con il predecessore -vivo o defunto, residente ancora in parrocchia o altrove, più o meno importante…- è qualcosa di delicato da tenere presente, da elaborare personalmente e, in qualche misura, con la comunità, perché può avere influssi notevoli che potrebbe essere pericoloso negare o semplicemente subire.

Succede, a volte, che il predecessore rimanga in parrocchia continuando a commentare con amici e confidenti le scelte del nuovo parroco. Potrebbe capitare che chi ha preceduto abbia avuto qualità e stile differenti rispetto al successore e così si inneschino dinamiche di confronto su ogni cosa. Può anche darsi che chi ha preceduto mantenga una certa influenza, in parte inevitabile, con gruppi e persone o, si sia comprato una casa proprio nel territorio della parrocchia e… ogni tanto ci ritorna.

Il confronto con l’ombra del predecessore innesca sensi di inferiorità o superiorità, che possono creare risentimento e ansietà con ripercussioni nelle dinamiche personali e comunitarie. Ad un estremo c’è chi tende a subire il tutto, accumulando frustrazioni che si traducono indirettamente in timidezze e diffidenze più o meno esplicite, mentre all’estremo opposto c’è chi tende a fare come se il predecessore non fosse mai esistito. Sarà bene prendere coscienza di come effettivamente stiamo vivendo, dentro di noi, il rapporto con il parroco precedente e decidere dei passi giusti e proporzionati prima di tutto per noi, ma anche per la comunità, in modo da elaborare il passaggio e il lutto per la comunità. Se tutto questo avviene bene, nella comunità si crea un senso di gratitudine e la percezione della continuità del ministero, e nel nuovo parroco un senso di pace e sicurezza.

L’incrocio o lo scontro di esigenze differenti

Nel modo d’interpretare il ruolo di parroco si incrociano diverse esigenza: il mandato ufficiale accompagnato da indicazioni più o meno concrete del vescovo e\o del vicario, le pressioni delle persone, le attese personali, le attitudini e gli interessi…

Non di rado capita che ci sia una disparità significativa e a volte addirittura drammatica tra il mandato ricevuto e le pressioni interne alla parrocchia o tra le situazioni che si trovano e le attitudini personali. Anziché esplicitare questo scontro, il nuovo parroco si lascia risucchiare dalle cose pratiche da fare, spesso senza una preparazione adeguata della comunità e un accordo sufficientemente concreto e cordiale con altri sacerdoti e operatori pastorali. Cade nell’errore di moltiplicare tutto per due o per tre, con il rischio di mettere a dura prova la propria salute e rimanere succube del ricatto di alcune persone o gruppi interni. Tutto ciò può stare a significare che si sta agendo sotto la pressione dell’ansia anziché della deliberazione e il passo successivo sarà l’isolamento nel proprio attivismo.

Lasciarsi modellare dalla spinta di priorità concrete e necessità pratiche può essere senz’altro appassionante, ma può avere dei costi molto cari sulle condizioni di vita e di testimonianza, soprattutto in un terreno pastorale dove tutto sembra avere la stessa importanza.

Economia e potere decisionale tra ansia e risentimento

Una volta diventati parroci, finalmente per alcuni, purtroppo per altri, si deve decidere dell’economia della parrocchia. Non di rado si vive sotto l’ansia di dovere completare ristrutturazioni già in atto, iniziare lavori già decisi, saldare debiti pregressi. Spesso l’ansietà s’incrocia con una buona dose di risentimento per ciò che non ci hanno detto fino in fondo o che nessuno (!) sapeva, con il dovere e, a volte l’urgenza, di prendere delle decisioni onerose e gravose.

Nonostante l’ aiuto dell’ufficio amministrativo di qualche curia, l’ansia può diventare angoscia destabilizzante per l’entità degli impegni finanziari, per scelte non ben ponderate ma ormai obbliganti (si pensi a costruzioni di nuovi oratori o chiese quando è già difficile gestire e qualificare con presenze educative ciò che c’è già), per la presenza di alcuni personaggi nel consiglio degli affari economici o di predecessori che si sono mossi con troppa disinvoltura e zelo, ma lontano da saggi criteri pastorali e amministrativi.

Il campo amministrativo chiede un duplice impegno: quello per gli adempimenti economici necessari ma anche quello del discernimento che sappia tenere insieme non solo i valori evangelici e le esigenze veramente pastorali in gioco, ma anche i limiti delle risorse disponibili. È certamente più oneroso fare questo discernimento nella corresponsabilità (parrocchiale e diocesana) e con il consiglio di persone informate e competenti. Tuttavia, il farlo insieme tutela da angosce o deliri che, non di rado, si trascinano in divisioni e lotte. La lealtà e la trasparenza nello stile e nei criteri della gestione economica ordinaria, e non solo nelle scelte più appariscenti, dice della qualità della testimonianza e delle relazioni di una comunità. Essere fuori regola rispetto alla gestione economica tradisce uno stile di presidenza che è più parente del vizio che della virtù.

Presiedere «con»

Il presiedere introduce in molteplici relazioni, (con laici, consacrate\i, presbiteri delle parrocchie vicine, città….). Le capacità di corresponsabilità e, ancora di più, di condivisione non solo servono per rendere accettabile il leader, ma dovrebbero anche dare avvio a quel benessere relazionale tipicamente cristiano che consiste nella capacità di donare con gratuità e di ricevere con gratitudine.

Il rischio è quello di mortificare la molteplicità delle relazioni. C’è chi si isola o si sente isolato (ossia, si fida solo di se stesso). C’è chi dice di intendersi con i laici ma non con i preti (ossia, evita il confronto più esigente dei rapporti paritari). C’è chi ha relazione con tutti ma dal «mordi e fuggi» (ossia, fugge dall’intimità). C’è anche chi si crea una stretta cerchia di iniziati o di eletti con cui vivere le cose importanti (ossia, vuole sostenitori e adepti).

L’esigenza obiettiva della corresponsabilità e condivisione pone la questione di come il parroco esercita il potere: da quali fonti lo fa derivare e su che cosa lo afferma? Mentre si è più critici verso forme più palesemente e rigidamente autoritarie che fanno leva prevalentemente sul potere legittimo e sulla coercizione, si è meno vigili rispetto a stili «carismatici», dove prende il sopravvento la dimensione del riferimento praticamente esclusivo alla persona o la dimensione remunerativa del potere in termini di stima, di onori e di vantaggi per i seguaci. Sappiamo invece, che le fonti qualificanti del potere sono la competenza e la credibilità Che ci si accorga o no, il modo di esercitare la presidenza incide sulla qualità umana di chi presiede. Il modo con cui il parroco gestisce la questione del potere è decisivo per la maturazione o regressione del suo vissuto evangelico e particolarmente espressivo del suo modo -autentico o compensatorio- di vivere la scelta celibataria.

La missione al contrario

Prima o poi, il parroco si ritrova ad incontrare proprio tutti! La sua missione è «al contrario»: senza andare a cercare la gente, va a finire che se un prete è disponibile, se si fa trovare in tempi e luoghi regolari, se è accessibile…le persone gli arrivano letteralmente addosso; anzi qualche volta deve difendersi.

Ci sono tanti modi per esonerarsi dalla «missione al contrario» e respingere le persone: farsi prendere dal turbinio delle cose, dire o far capire che si è pieni d’impegno, giocare sul fatto che si è parroci di più parrocchie (ad una si dice che si è nell’altra e a questa si dice che si è nella prima…, tanto nessuno controlla), mettere filtri di accoglienza che incutono soggezione o scoraggiano l’accesso (ad esempio, lasciare perennemente accesa la segreteria telefonica con il messaggio: «il parroco è assente, chiamate più tardi»… ma quando?), presentarsi troppo selettivi in modo che le persone soprattutto se modeste e poco invadenti non osano venire. Altre volte alcune passioni un po’ esagerate o vere e proprie manie (pastorali e non), o un eccesso di impegni extra parrocchiali rendono disponibile il parroco solo nelle situazioni ufficiali e per gli aspetti strettamente funzionali.

Rendersi inaccessibili può essere collegato alla incapacità di «rimanere»: di abitare sempre più profondamente con se stessi, di stare con pazienza nelle situazioni umane così come sono e di dimorare in modo più attento e orante nella Parola. Uno è disponibile a portare il peso degli altri se è anche disponibile a

verificare se e come porta la propria parte. Gli anni dell’assunzione della missione pastorale piena possono essere gli anni di un ritorno più profondo e pacato a qualche tempo significativo e più regolare di ritiro, e anche quando si fosse comprensibilmente interrotto un cammino continuativo di accompagnamento spirituale sarebbe il momento propizio per riprendere -almeno una volta complessivamente, in un dialogo esplicito e concreto, da uomo a uomo- il cammino della propria vita con le sue luci e le sue ombre, con le sue ferite e i suoi doni. Il verbo della missione per un parroco è: rimanere!


Tra moglie e marito

Diventare parroco mette automaticamente in contatto con il mistero dell’esistenza umana: la dolcezza della intimità (se si fanno incontri di preparazione al matrimonio), la pienezza che deriva dalla paternità fisica (se si preparano i genitori al battesimo dei figli), il potere distruttivo dell’aggressività (se si trattano coppie in crisi o conflitti comunitari), la pesantezza della malattia, la minaccia della morte…. Se l’esperienza del ministero verso la famiglia alimenta e arricchisce il vissuto personale del prete, diventa anche ambito delicato dove la sua posizione affettiva è messa alla prova e provocata alla rilettura.

Seguendo le famiglie, forse per la prima volta si trova faccia a faccia con realtà finora affrontate solo a livello intellettuale. Questo contatto dal vivo con il mistero della vita gli può riattivare sue dinamiche irrisolte o affrontate precedentemente in modo troppo sbrigativo e, così, il contatto diventa qualcosa che lo confonde e lo annebbia. Non è, allora, raro che anche il prete resti preso da situazioni affettive confuse anche se il più delle volte non volute: non perché ha perso la vocazione ma perché la sua vocazione non sa elaborare e leggere i nuovi dati della vita che attraverso gli altri lo interpellano.

La consulenza educativa oltre ad interpellare la saggezza nell’orientare, chiede un rispetto molto attento dei confini relazionali (nella salvaguardia della discrezione, dell’integrità altrui e delle relazioni famigliari) e una gestione prudente della propria intimità (nello stile degli incontri, nella modalità dei gesti, nell’intensità dello sguardo, nella delicatezza e non volgarità delle parole). È un banco di prova che spinge, per natura sua, a rileggere con pazienza la propria storia passata e recente sotto il profilo affettivo e sessuale, superando il pudore di doversi riconoscere totalmente maturi, quando si sa bene che nelle differenti stagioni della vita di un uomo l’equilibrio e la maturazione affettivo-sessuale rimangono sempre un compito e una lotta, anche se vissuti nella pace. Se si salta questo riesame, l’occasione della rilettura può diventare il momento di rassegnazione a situazioni di disordine o di compromesso.

Libera Chiesa in libero Stato

Il ruolo del parroco mette in relazione anche con le istituzioni e le autorità civili, con le quali stabilire un rapporto di collaborazione corretta e leale per il bene comune.

Cercare il bene comune può identificarsi un po’ troppo con il ricercare i vantaggi «nostri». Succede che il parroco reagisca in modo offeso e personale come se l’amministrazione comunale o le autorità civili dovessero obbedire solo a lui; può anche capitare che una o l’altra autorità faccia troppi favori non del tutto regolari alla parrocchia; capita che qualche parroco diventi troppo amico del sindaco o del capo dei carabinieri favorendo la confusione e la diffidenza da parte della gente.

La lealtà del rapporto sa distinguere le competenze tra ecclesiale e civile. Anche in questo ambito si giocano le virtù dell’uomo di Dio: imparerà che anche l’amicizia deve fare un passo indietro rispetto al ruolo che lui ha e agli incarichi che affida agli amici (anche economici…). Questo ambito sociale è anche l’occasione per misurare ed eventualmente purificare il suo più o meno pronunciato narcisismo rispetto alle forme di esibizionismo, di eccessiva dominazione e al bisogno di essere riverito e onorato. Per amore della coerenza qualche volta si dovrebbe imparare a moderare i discorsi in riferimento alla qualità effettiva della testimonianza civile nostra e della comunità parrocchiale.

C’è proprio bisogno di credere?

Questa domanda, prima o poi, incomincia a serpeggiare in modo silenzioso. Se prima valeva per gli altri (i cosiddetti lontani), ora riguarda il prete stesso: non gli sarà difficile prendere atto che molte delle cose che fa e che fa da tanto tempo funzionano anche senza il riferimento alla sua fede.

L’emarginazione della fede dalla vita del parroco lievita da sola, per inerzia, senza passare dalla crisi eclatante. Piccoli segni: la preghiera è «dire» la messa (di solito con la preoccupazione di che cosa dire alla gente nell’omelia), le esortazioni alla preghiera abbondano ma i modi di organizzare la pastorale non la prevedono. Alcuni messaggi impliciti: la chiesa non prevede uno spazio accogliente per una preghiera silenziosa davanti all’Eucaristia; rimane chiusa («per il pericolo dei furti») o apre ad orari che vanno bene solo per i pensionati e… il riscaldamento si accende solo la domenica.

Ritrovare, proporre e favorire concretamente il primato di Dio e della fede viene da una scelta di vita del prete: quella di custodire la qualità della sua vita, anche a costo di cambiare le prassi pastorali. Con pazienza ma anche con furbizia.

Domani ci saranno ancora preti?

Banalmente ridotta al lamento sul domani, (il panico per il calo delle vocazione), la domanda interroga il modo con cui il prete si vive oggi (ossia la rappresentazione interiore che lui stesso si fa del suo essere prete) e interroga il senso delle sue attività (che non sempre corrisponde a quello che lui attribuisce ad esse).

Fare pastorale vocazionale è una cosa che, di solito, si rimanda al responsabile diocesano. Semplice delega o anche imbarazzo a proporre alle generazioni future il proprio stile di vita? Per proporre ad altri, bisogna sentire in se stessi quella proposta come la cosa più preziosa per se stessi e degna da trasmettere. Ma questa fecondità, anche il parroco la può perdere: da una parte propone

insistentemente ai giovani di impegnarsi in parrocchia ma poi, se loro accettano, li lascia soli senza un lavoro di supervisione e senza proporre forme anche molto minime di accompagnamento personale; tratta con poca delicatezza le religiose che lavorano nella sua parrocchia (semplici «suore» senza un nome proprio, che «lavorano» da «noi»); ha poca attenzione ai bisogni più evidenti e alle difficoltà magari intraviste nei confratelli, riservandosi poi, a fatto compiuto, di commentare: «lo sapevano tutti!».


Anche dal modo di essere parroco oggi dipendono le vocazioni di domani. C’è una circolarità tra l’organizzazione pastorale con le esigenze di ruolo, da una parte, e il cammino spirituale con le relative esigenze di stile di vita, dall’altro. Quando questi due linee si divaricano, lacerano la vita del prete rendendola impraticabile e sempre meno attraente.