Vi esorto…a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto

di Marco Vitale

(pubblicato su "Presbyteri" n. 9 del 2018)

Da qualche giorno l’aria in parrocchia è particolarmente pesante anche se tutte le attività sembrino procedere normalmente. Nel cortile alcuni genitori si fermano a parlare chiedendo chiarimenti su delle voci che hanno sentito davanti ai cancelli della scuola ma i collaboratori parrocchiali evitano di incrociarne gli sguardi. In effetti già da tempo si raccontavano cose strane sul Don, e poi sui social erano apparsi post poco chiari sulla questione. Nel frattempo in curia il vescovo ha già incaricato il vicario generale di trovare un sacerdote che possa temporaneamente celebrare in parrocchia al posto del Don, il cancelliere provvede alla nomina…


Spesso è questo il contesto in cui si consuma il dramma di un prete che commette qualche errore non facilmente recuperabile. Nelle righe precedenti, volutamente non ho accennato al Don perché a lui, che è il vero soggetto, vorrei dedicare questa mia riflessione. Vorrei evitare anche facili luoghi comuni, estremizzazioni e generalizzazioni per stimolare una riflessione ampia e profonda. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di evitare spaccature nel tessuto ecclesiale già fiaccato da più parti.

Sono convinto che un prete non sbaglia all’improvviso e senza alcuna logica. L’errore si può palesare improvvisamente e può seguire un’apparente illogicità ma la sua radice è sempre molto profonda.


Per praticità mi permetto di seguire uno schema cronologico.

Un prete non nasce dal nulla ma viene “scelto dagli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1). La famiglia di origine del prete ha un ruolo indiscutibile nell’equilibrio (positivo o negativo) o nello squilibrio del futuro prete. Nella famiglia possono rintracciarsi influenze genetiche, psicologiche e sociali ed è in essa che nascono le motivazioni più profonde della scelta vocazionale. Molte volte alcuni preti “problematici” sono diventati tali solo perché non sarebbe mai dovuti essere ordinati! Davanti ad una realtà così complessa è evidente la necessità di un discernimento non banale ed altrettanto complesso. A volte, le tentazioni di “gonfiare” i numeri del seminario, di non frustrare il desiderio del candidato o della sua famiglia o del suo parroco, spingono ad accogliere nuove vocazioni con una certa superficialità. Sappiamo tutti che la vocazione al presbiterato è cosa ben diversa dalla conversione, da una sana pratica della vita cristiana, da uno stile di vita orientato ai valori cristiani eppure molte volte il discernimento si riduce a valutare primariamente questi aspetti secondari. Anche solo per questi motivi, emerge la necessità di un discernimento frutto della sintesi di più attori: il vescovo, il rettore del seminario, il parroco di provenienza e della comunità dove il candidato svolge servizio nell’anno propedeutico e di alcuni laici (senza trascurare donne e famiglie con la loro particolare capacità di leggere il cuore delle persone) e religiosi che conoscono il candidato. Deve essere inoltre evidente che gli anni di seminario non possono essere un tempo da dedicare alla cura di patologie psicologiche o psichiatriche: tali cure devono essere svolte prima dell’ingresso in seminario. Ovviamente questo non significa che gli anni di formazione al sacerdozio non possano, e non debbano, essere utilizzati anche per la formazione umana e per una maggiore autoconoscenza della propria persona da parte del candidato, con l’aiuto di esperti.

Un’attenzione particolare nel discernimento vocazionale sul candidato credo che sia necessaria anche per la conoscenza dei suoi bisogni e valori proclamati e realmente vissuti. A solo modo di esempio, è ben diverso accogliere un candidato affermato nel mondo del lavoro o in cassa integrazione, un giovane con una storia alle spalle di dipendenza da sostanze o senza una storia affettiva significativa.

Un ultimo aspetto, non certo per ordine di importanza, su cui vorrei catturare la vostra attenzione è sulla necessità di una riflessione sistematica sull’organizzazione della formazione remota al presbiterato (in concreto l’organizzazione del seminario e la sua stessa esistenza in certe forme) che però non è opportuno affrontare in questo spazio.

E’ evidente che queste considerazioni non siano delle scoperte ma ho creduto importante ribadirle, nel contesto di questa riflessione, per sottolineare l’importanza del ruolo di questa fase iniziale della storia vocazionale di un prete, anche a distanza di molti anni dall’ordinazione presbiterale.


Quando si parla di errori e scandali dei preti dovremmo avere il coraggio di rileggere certe storie non solo, come già accennato, nelle dinamiche della famiglia di origine e del seminario ma anche nell’esperienza della formazione permanente. Se è vero che tale realtà era inesistente, almeno nei termini che intendiamo oggi, per i sacerdoti con oltre 20-25 anni di sacerdozio, è altrettanto vero che i preti più giovani -in un modo o in un altro- ci si sono dovuti confrontare. Il documento della CEI “Lievito di fraternità” pur nella sua essenzialità, ha ribadito ancora una volta la centralità di questa esperienza per la qualità umana, spirituale ed ecclesiale della vita del presbitero.

Conosciamo tutti le difficoltà oggettive di molte diocesi nell’organizzare una proposta di qualità e, ancor più, una proposta che tocchi la profondità più recondita del singolo presbitero all’interno dell’unico presbiterio diocesano (comprendente anche i religiosi presenti nel servizio della singola Chiesa locale). Tale situazione non deve però farci arrendere né farci accontentare della mediocrità. Personalmente ritengo, pur non negando la fondamentale importanza delle dimensioni culturale, spirituale e pastorale, che sia ormai irrinunciabile una conoscenza e un dialogo personale e costante tra formatore e presbitero. La formazione permanente di un prete non è primariamente dargli altri contenuti (pur se utili, se di qualità) ma è aiutarlo a tirare fuori ciò che ha nel suo cuore e nella sua mente ed aiutarlo a crescere come persona-figlio-di-Dio e a creare e a curare, in stile evangelico, sane e durature relazioni interpersonali.

Conosciamo bene le resistenze di noi sacerdoti a farci lavorare come creta nelle mani del “Vasaio” (soprattutto dai suoi mediatori: vescovo, vicario generale, padre spirituale, formatori del clero, psicologo, …) ma ritengo che acquisire questa capacità sia indispensabile per prevenire anche tanti scandali e per maturare il passaggio dalla docilitas (ad esempio, partecipo alle riunioni del clero) alla docibilitas (ad esempio, per essere sempre più libero di imparare anche dalla vita quotidiana nel Ministero).


Dopo queste premesse, che reputo doverose, andiamo a riprendere il Don della storiella inventata con cui ho iniziato la riflessione.

Le forme esteriori degli scandali dei preti sono sempre le stesse: da quelle che rivestono un maggiore scandalo morale (e a volte penale) a quello dell’eccessiva fragilità. Ed allora è sufficiente googlare sul web per trovare un’infinità di storie. Ogni volta, se si volesse/potesse scavare un po’ in profondità, ci ritroveremmo davanti un prete malato fisicamente o mentalmente oppure immaturo, poco prudente, instabile, fragile, isolato. La punta scandalosa dell’iceberg dell’esistenza di un prete quasi sempre si è formata in lunghissimi anni, probabilmente davanti all’indifferenza o al menefreghismo di tante persone: consacrate e laiche.

Non voglio eliminare la responsabilità personale del singolo sacerdote ma voglio sottolineare che è fanciullesco ritenere che tutto, specialmente negli scandali più pesanti, sia riconducibile ad essa.

Quando scoppia lo scandalo il prete coinvolto si rende conto che il suo segreto ormai non è più tale e, spesso, nel tentativo immaturo di voler recuperare nega sino all’inverosimile. Ciò lo renderà ancora più indifendibile e lo costringerà ad ulteriori attacchi. Non pochi vescovi si sono visti costretti a mostrare al sacerdote in questione, foto, video, registrazioni, documenti inchiodandolo alle proprie responsabilità senza appello: un’esperienza dolorosa per il prete e per il vescovo.

Altri preti, al contrario, davanti all’errore ormai pubblico si sentono finalmente liberati da un fardello che portano avanti chissà da quanto tempo e si sentono storditi ma sollevati.

Questa duplice possibile reazione ci fa ben comprendere come le caratteristiche singolari di ogni persona siano da conoscere bene e da tenere in forte considerazione.

Normalmente per il prete coinvolto in una vicenda di questo tipo inizia un periodo umanamente e spiritualmente pesante ma che è anche il primo gradino verso la Risurrezione e l’uscita dal buio del sepolcro. Non di rado, certi errori sono anche reati canonici (che prevedono un processo e una pena canonica, fino alla dimissione dello stato clericale) e o penali secondo la legislazione statale (con processo civile e penale con pene fino all’arresto).

Molte volte il prete soggetto dello scandalo, se aiutato e se accetta l’aiuto, ritorna felicemente al suo Ministero dopo aver pagato il suo debito di giustizia. Ritorna portandosi dietro le sue ferite abbellite -un po’ come la tecnica giapponese del Kintsugi che ripara vasi rotti lasciando visibili le linee di rottura ma impreziosendole con polvere d’oro- e con la consapevolezza dei suoi limiti e delle sue risorse.

E’ evidente che ad un prete che passi per questo tipo di esperienza non gli si possa chiedere di andare ovunque a svolgere il suo ministero. Mi domando: se questa consapevolezza la si avesse per tutti i preti e prima che sorgessero difficoltà insuperabili, non sarebbe una scelta di verità e di carità? Se è vero che un uomo riceve la vocazione al presbiterato per la Chiesa non è vero che il Signore pensa ciascuno di noi in modo del tutto originale? Cosa ne guadagna una Chiesa diocesana nel vivere sempre nella logica dell’emergenza ed “usare” i preti come tappabuchi se poi il risultato finale è spesso quello di cui stiamo parlando in questa riflessione? Donare la vita per il Regno di Dio non va mai confuso con il distruggere una vita!

Mi avvio alla conclusione di questa riflessione chiamando in gioco tre “attori” che nella storiella di apertura dell’articolo non ho presentato se non superficialmente.


Innanzitutto la comunità parrocchiale dove l’ipotetico Don vive e svolge il suo ministero. Oggi più che nel passato, quando un prete arriva in una parrocchia o in una unità pastorale, spesso trova ad accoglierlo le questioni amministrative e burocratiche. Dopo aver sentito parlare per anni, in Seminario, della sua vocazione ad essere il Buon Pastore della comunità cristiana, rischia di ritrovarsi solo. Nel tempo questa situazione non è sopportabile!

A volte il sacerdote, se non proprio solo, rischia di ritrovarsi con un piccolo gruppo di persone che, secondo le circostanze, possono viziarlo come un adolescente oppure svuotarlo con richieste di mille attenzioni particolari.

Il ruolo della comunità parrocchiale è insostituibile nella prevenzione di comportamenti errati del proprio prete. Una comunità che si relazioni al proprio Don in modo adulto è il più efficace antidoto a situazioni anomale. Per onestà intellettuale mi sento di dover sottolineare anche la necessità che il sacerdote si impegni ad offrire alla propria comunità una formazione e delle esperienze che le permettano di crescere nella capacità di relazioni accoglienti, libere, liberanti e responsabili.


Il secondo “attore” che vorrei presentare velocemente è il presbiterio diocesano. Nessun prete dovrebbe vivere senza sentire forte, intorno a sè, il proprio presbiterio. Molto spesso un prete non ha grandi difficoltà ad accorgersi se un proprio confratello, magari della parrocchia accanto, attraversi un periodo di fatica. A volte, tra preti non ci si sbilancia per paura di rompere equilibri delicati ma questo, al di là dell’apparente bontà è una tentazione grossolana. Non si tratta di dire al confratello ciò che deve o non deve fare (l’altro già lo sa!) ma offrirgli e proporgli la possibilità reale di creare una rete di relazioni di “prossimità”. Questo servizio che ritengo fondamentale per essere efficace dovrebbe essere realizzato da tutti e ciascun prete di una diocesi. Ognuno con le proprie storie, i propri limiti e le proprie risorse.


Un’ultima parola sul terzo attore: il vescovo. Credo, in generale, che mai come in questi anni il ministero del vescovo sia tirato da una parte all’altra. Sono convinto che nonostante le mille responsabilità debba avere una priorità speciale per i propri preti anche, se necessario, delegando almeno in parte ai suoi collaboratori.


In conclusione, quando a sbagliare è il Don è un intero sistema ad aver fallito. Personalmente credo che sia urgente lavorare tutti e tutti insieme, ciascuno secondo il proprium, per la qualità della vita umana, spirituale ed ecclesiale anche di ciascun prete.